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Metodi per far accadere una scoperta autonoma dei saperi.

Ogni volta che sconfiggiamo l’ignoranza latente su chi siamo, cosa siamo e cosa possiamo diventare, questa diventa una vittoria da celebrare. E sappiamo anche che una vittoria profonda richiede un lavoro in profondità. Nel Deep Coaching non ci accontentiamo di incrementi puramente conoscitivi ma vogliamo che il cambiamento interessi il corpo, la mente, lo spirito, e l’essenza vitale delle persone stesse. So che si tratta di sfide difficili ma questo non ci farà demordere.

Più difficile è la vittoria, più grande è la felicità nel vincere.

Pelé

Su numerosi aspetti di teoria manageriale e comportamenti aziendali, è possibile applicare una formazione attiva in cui i clienti siano partecipi della costruzione della conoscenza stessa.

Il DCE (Diagramma di Causa-Effetto) è uno degli strumenti più utili in questa fase. Scopo del DCE è quello di costruire teorie e sviluppare modelli operativi sulla base di conoscenze già possedute dai partecipanti.

Il DCE si basa sul dato di fatto che molto di quanto il formatore desidera trattare è già conosciuto dal discente, molto sapere è già accumulato all’interno delle esperienze dell’individuo e – per sommatoria – del gruppo in formazione.

Il DCE aiuta a sistematizzare questa conoscenza e a tradurla in modelli applicabili e operativi per l’azione manageriale, è utile sia per analizzare situazioni esistenti che per prevedere andamenti futuri. Come sottolinea von Wright[1],

la costruzione delle teorie serve a due scopi principali: prevedere l’accadimento di eventi o risultati di esperimenti, e così anticipare nuovi fatti, e spiegare, o rendere intelligibili, i fatti che sono stati già registrati.

Il DCE serve per entrambi gli obiettivi: per analizzare relazioni di causa-ed-effetto (costruire un quadro di ipotesi relativo a tutti i fattori che possono generare un risultato o causare un problema), ma anche per allenarsi al variables-reasoning (il “ragionare per variabili”) prima di prendere decisioni (agire per rovesciare il comportamento del “management da bar”).

Il valore del DCE è quindi sia 

  • Strumentale: (le analisi che produce sono utili per studiare il problema in esame), che 
  • meta-strumentale: aiuta il soggetto ed il gruppo ad allenarsi nel costruire modelli operativi, compiere analisi e a sistematizzare ipotesi, pensiero logico e conoscenza.

Esempio applicativo sulla costruzione in aula di un Diagramma di Causa-Effetto

Come evidenzia Trevisani (2000), 

Il primo e più importante contributo delle discipline scientifiche è il variables reasoning, un’impostazione di fondo del ragionamento scientifico ed un insegnamento prezioso per l’impresa: trattare i problemi in termini di variabili e loro relazioni. Un problema quale “calano le vendite negli USA” andrà quindi studiato in termini di “cosa determina il calo delle vendite” e “cosa determina un successo di vendita in quel paese”. Dovremo quindi costruire un vasto raggio di ipotesi e spiegazioni possibili. Ad esempio: ipotesi 1 – “le vendite calano perché il paese è in fase di recessione “; ipotesi 2 – “le vendite calano perché sono entrati nuovi concorrenti”, ipotesi 3 – “le vendite calano perché la nostra rete commerciale si è indebolita”, ecc… 

Queste ipotesi andranno verificate empiricamente (partendo da dati reali), sino ad identificare la causa vera o l’insieme di cause su cui agire. 

Lo stesso procedimento proposto si applica a livello di prodotto, su problemi quali “la linea B genera troppi pezzi difettosi”, su problemi organizzativi e di servizio (es: analisi del motivo per cui “i nostri tempi medi di consegna sono superiori alla concorrenza”) e su temi sociali (es: attacco alla disoccupazione giovanile partendo dai fattori che la generano, senza pensare a interventi palliativi che creano finta occupazione).

Ragionare per ipotesi, sviluppare alternative e sottoporle a verifica significa adottare un metodo scientifico. Molte aziende invece operano su problemi di tale natura con azioni impulsive tipo “cambiamo il direttore commerciale”, “raddoppiamo la pubblicità” o “cambiamo fornitore” magari operando proprio sulle leve sbagliate. 

Essere competitivi significa quindi – innanzitutto – saper analizzare i fattori critici del successo prima di agire. Significa costruire una base di conoscenza aziendale sui rapporti di causa-effetto in cui l’impresa è coinvolta, prima solo abbozzata, poi migliorata e verificata in parte, poi sempre più completa ed esaustiva, fino a possedere il quadro esatto della situazione. Tanto più ampia la base di conoscenza aziendale, tanto meglio l’impresa saprà quali leve toccare e che risultato ne emergerà.

Il tentativo di ragionare per variabili e loro relazioni costituisce innanzi tutto uno strumento pratico. Con un effetto ulteriore: in seguito al suo utilizzo ripetuto esso si trasforma in una impostazione culturale, filosofia guida positiva di una cultura aziendale analitica e basata sul core-problem solving. La cultura del variables-reasoning vale come linea guida per ogni analisi dei problemi aziendali, in ogni settore e reparto.

Nell’approccio variables-reasoning si applica un procedimento (prima di tutto mentale, poi eventualmente supportato da supporti scritti o software) in cui il problema o il goal viene analizzato in termini di variabili che lo possono generare, di rapporti causa-effetto e fattori generativi. Si costruisce quindi un quadro di ipotesi da cui partire, visualizzabile tramite un diagramma. Le singole ipotesi devono essere verificate e costituiscono la base per lo sviluppo di strategie[1].

È possibile creare DCE innestati, nei quali – con la tecnica della zoomata – si approfondiscano ulteriormente le cause o ipotesi identificate. In un contesto di formazione manageriale, il livello di profondità dell’analisi dipende dal tempo a disposizione, dall’esperienza specifica dei partecipanti e dal clima di cooperazione del gruppo.

I metodi per costruire il DCE sono stati divisi da Trevisani (2000) nel metodo ALM in “negativi”, “positivi” e “a livelli”[2].

  • I DCE negativi sono applicati a problemi e utilizzano formulazioni verbali negative, es: “Demotivazione, impreparazione e obiettivi confusi determinano calo di vendita”.
  • I DCE positivi si applicano a goals e utilizzano formulazioni positive, es: “La qualità della formazione dipende dalla capacità di realizzare un’analisi efficace dei fabbisogni formativi, predisporre moduli veramente professionalizzanti, utilizzare docenti e metodi didattici coinvolgenti”. 
  • I DCE “a livelli” presentano le relazioni in termini di variabili pure, es: “Il livello qualitativo del prodotto dipende dal livello di manutenzione dei macchinari e dal grado di purezza delle materie prime”. 

Sempre ricorrendo all’opera di Trevisani (2000), presentiamo in seguito alcuni esempi.

Nel primo DCE viene applicata una zoomata su un fattore considerato primario (la capacità di vendita personale). Come si noterà nello schema, alcuni fattori sono ricorrenti, in altre parole possono comparire collegati a più caselle. Ogni casella consiste infatti in un’analisi a sé, e pertanto è possibile che un fattore pervasivo come la capacità di comunicazione entri sia nella qualità dell’assistenza che nella capacità di vendita e nella capacità di gestire il personale.

Il diagramma primario sostiene ad esempio che il successo di vendita sia collegato alle capacità personali (competenze, comunicazione, affidabilità, proiezione di un’immagine professionale), ad un accurato studio dei destinatari (segmentazione strategica per individuare il target, segmentazione operativa per individuare i prospects e i decisori, analisi dei bisogni dei destinatari finalizzata a capire come creare valore), alla qualità del prodotto e suo rapporto qualità/prezzo, alla qualità dell’assistenza e garanzie, e alla capacità di promozione. Ciascuno di questi fattori a sua volta dipende da altre cause. Ad esempio, la qualità della promozione dipende dalla qualità del supporto media, dalle capacità di vendita personale e dai supporti cartacei alla vendita diretta o sul punto di vendita (display, cataloghi, listini, company profile, ecc).

La zoomata riguarda uno di questi aspetti: la capacità di vendita personale. Secondo lo schema, la capacità di vendita viene collegata alla conoscenza del prodotto, alla formazione ricevuta, alla motivazione e impegno del venditore, e ai supporti logistici. Ciascuno di questi elementi dipende a sua volta da altri. Ad esempio, la conoscenza del prodotto è correlata al settore di provenienza (difficilmente un meccanico potrà occuparsi di alta moda femminile) e all’impegno nello studio del prodotto (che invece chiunque può mettere in atto); la qualità formativa dipende dall’attivazione di specifici percorsi sulla tecnica di vendita, dall’utilizzo di metodi formativi efficaci quali role-playing e project-works, e dall’affiancamento con persone esperte e tutor; la motivazione ed impegno dipendono dai benefit e dalla remunerazione (materiale e immateriale: denaro e gratificazioni, possibilità di crescita), e dalla cultura aziendale che deve produrre obiettivi chiari e sistemi di controllo efficaci. In ultimo, i supporti logistici, la cui qualità dipende dai supporti materiali (auto, PC, agende, telefoni) e dalla organizzazione ottimale dei tempi e percorsi di visita (time management di vendita).

Come si può notare, al crescere del livello di dettaglio emergono sempre più da vicino le leve strategiche da toccare, i passi concreti e operativi che l’azienda competitiva può attivare.

In altre parole, il variables reasoning permette di arrivare alla radice di cosa determina i risultati, e costruire il cruscotto aziendale, la sala controllo dell’impresa, il quadro comandi della competitività.

Dopo aver costruito il proprio diagramma di relazioni sull’obiettivo, l’impresa saprà dove destinare le risorse, e come impostare un sistema competitivo permanente (il vero risultato ricercato dal metodo ALM).

Lo stesso procedimento, applicato allo studio di un problema (es: il calo di vendite) produce ulteriore ricchezza di analisi, evidenziando gli errori da evitare.

Prima di agire su un calo di vendita, dovremmo infatti essere ben sicuri se il calo sia da attribuire a noi (alla nostra organizzazione e capacità interna) o all’andamento del mercato (domanda globale in calo o recessione) o ad entrambi. In un caso, ricercheremo rimedi interni, nell’altro caso dovremo aprire un’altra serie di domande: il calo è momentaneo o permanente, riguarda noi o tutti, quanto durerà, quali ne sono i motivi, ci conviene rimanere in questo settore, che alternative pensare.

Agire su un problema quale un calo di vendita avendone identificato i fattori causali, produce un risultato non immediato, ma duraturo (ad esempio, agendo sulla qualificazione della rete di vendita e sulle modalità motivazionali profonde). Un rimedio immediato può essere raggiunto tramite interventi superficiali (es: promozioni sui prezzi), con l’effetto di non agire sulle cause profonde, e soprattutto di abituare il cliente ad un prezzo inferiore, il che rende difficile poi ritornare ai livelli di prezzo normali. Gli interventi non-causali, quindi, realizzano spesso più un danno che un risultato (al di là delle apparenze del momento).

In conclusione, sia che si intenda agire con metodi “one way” quali la lezione, sia che si intenda favorire una scoperta autonoma dei Saperi, è necessario introdurre una fase di azione sui Saperi all’interno di un progetto più complesso, dove questi saperi vengano testati nel saper fare con progetti applicativi, e messi alla prova nel saper essere sottostante.

Quanto più ci allontaniamo dalla nostra zona di comfort tanto più possiamo fallire ma allo stesso tempo imparare cose che altrimenti non avremmo imparato mai.

Impariamo dal fallimento, non dal successo.

Bram Stoker
In evidenza Il Setting formativo come facilitatore o rallentatore

Il Setting formativo come facilitatore o rallentatore

Il setting formativo o di intervento deve essere assolutamente differenziato a seconda delle tre tipologie principali di formazione: addestramento, formazione, ricentraggio. Il setting deve essere:

  • il più possibile in sede operativa reale, per le azioni di addestramento;
  • per il ricentraggio e il Deep Coaching, il più possibile lontano (lontananza fisica, ambientale o metaforica) dalla sede operativa reale (lontano non in senso prettamente fisico, ma relazionalmente, e quindi mai in azienda), al fine di creare il grado di distacco necessario per riflettere con maggiore serenità e introspezione, evitare disturbi e rumore esterno (rumore psicologico) derivante dal contatto con i problemi quotidiani;
  • con mix di diversi formati per le azioni formative classiche.

Il setting deve permettere alla regia di coaching o di formazione di concretizzarsi, deve aiutarla, e non ostacolarla o farvi da freno. Si tratta di cambiare mentalità e pensare che si può apprendere anche oltre l’aula. Questo è un cambiamento decisivo di visione e di atteggiamento, che ci porta ad apprezzare sempre di più le “training experiences” come l’outdoor training, i ritiri esperienziali, e tanti altri metodi attivi.

Le aule didattiche universitarie sono un esempio di setting non orientato al saper essere ma ispirato alla ricezione ad una via: risentono dell’impostazione e imprinting del paradigma one-way (flusso unico da docente ad allievo), il setting generale vede un podio o cattedra, file di seggiole spesso inamovibili e spesso inadatte a creare gruppi di lavoro d’aula o qualsiasi altra forma di active training.

Le sale riunioni aziendali si prestano ad interruzioni di ogni tipo, da parte dell’ambiente interno aziendale e di colleghi che entrano ed escono disturbando, non offrendo la possibilità di isolamento indispensabile per concentrarsi. La presenza di porte vetrate, ove accade, è assolutamente deleteria, così come la presenza di persone che ascoltano quanto accade in aula.La durata della nostra vita in questo mondo è breve. Per questo, ogni occasione di apprendimento va colta e sperimentata in prima persona e in modo esperienziale, perché la vita vola e ogni istante della nostra esistenza può diventare gioia di apprendimento.

Non rinunciare ad un sogno solo perché pensi che ti ci vorrà troppo tempo per realizzarlo. Il tempo passerà comunque.

Earl Nightingale

Il setting formativo e la scelta della location per fare active training nella formazione aziendale.

Il setting formativo, il luogo ove avviene la formazione, risente anche in azienda dell’imprinting universitario, poiché la maggior parte dei manager è transitata per l’università, ne ha assorbito numerosi modelli, e anche il setting della formazione risente per osmosi di ciò a cui si è stati esposti da studenti

Il setting formativo in azienda deve essere il più possibile flessibile, adatto a far lavorare gruppi, con seggiole spostabili a piacimento. 

Dobbiamo convertire e rivoluzionare le sale didattiche per farle diventare laboratori di apprendimento e non luoghi ove spegnersi.

Idealmente, l’intero luogo di svolgimento di un training deve diventare setting. Negli active training da noi realizzati invitiamo spesso le aziende a spostarsi presso location dotate di piscine (per poter svolgere esercizi di bioenergetica manageriale in acqua), tavoli esterni, divani, luoghi di incontro esterni all’aula, idealmente anche giardini, parchi, luoghi naturali.

La varietà di strumenti offerti dal setting (anche strumenti non convenzionali, quali la possibilità di fare un percorso nella natura, camminando e conversando su un tema assegnato dal docente) facilita la gamma di opzioni di intervento. Distinguiamo in una breve rassegna:

  • Coaching prossimale one-to-one o “shadowing”: il coach affianca il cliente direttamente presso la scrivania, lo segue nelle riunioni o in meeting, in negoziazioni, e sul lavoro. Utile per raccogliere dati primari, osservazioni, dati di realtà.
  • Coaching esterno one-to-one: svolto in sedi diverse dall’azienda, sedi terze (es: hotel) o presso la sede del coach.
  • Coaching a distanza one-to-one: svolto online, tramite media (telefono, email, videochiamate). È efficace ma idealmente va intervallato da sessioni in presenza, da considerare come strumento ausiliario rispetto ad altre azioni più forti e in presenza. 
  • Training in sede d’azienda (in-house): l’azione formativa sul gruppo, se svolta in azienda, rende più difficile (anche se non impossibile) svolgere active training. Enorme rischio di “inquinamento” del training da parte dell’ambiente sociale, con distrazioni, chiamate dei partecipanti per urgenze, rumori di fondo fisici e psicologici. Grave rischio e timore di “perdita di faccia” nello svolgere esercitazioni “strane” se osservate da colleghi che non stanno svolgendo il training, avvio di una “spirale di derisione” da parte di chi non sa nemmeno cosa sta succedendo e perché.
  • Location urbane (es: hotel): rischio di aule senza finestre, ambienti chiusi, costrizioni logistiche dettate dalle esigenze alberghiere (orari di pranzo fissi, presenza di altri training). Da scegliere accuratamente cercando luoghi che abbiano un’anima o almeno vetrate con vista.
  • Location remote o immerse nella natura: forte possibilità di aumentare il senso di “ritiro” (come ritiro spirituale, o ritiro di una squadra atletica), aumento di concentrazione, e diminuzione di rumori di fondo e disturbi.
  • Location termali e turistiche: opzioni valide in cui poter usare anche strutture per active training come piscina, o parchi da utilizzare nel training program o nei tempi liberi dei partecipanti.

Il setting di un Deep Coaching deve essere facilitante rispetto allo scopo di fondo: agire sul modo di pensare e sulle credenze profonde, e non solo su sterili conoscenze che non lasciano nessun segno nella vita.

Noi diventiamo ciò che pensiamo

Earl Nightingale
In evidenza Progressione dei livelli di conoscenza e Modelli di Crescita nel Deep Coaching

Progressione dei livelli di conoscenza e Modelli di Crescita nel Deep Coaching

Il cambiamento positivo viene favorito dai seguenti fattori:

  1. remember, recall & knowledge: ricordo, conoscenza dei concetti; riuscire a ricordare le variabili chiave di un modello di sviluppo che si intende usare;
  2. comprehension, understanding: capire veramente il tema; capire veramente il cuore e il senso del modello;
  3. application: saper applicare il tema o modello ad un problema;
  4. analysis: saper analizzare un obiettivo o problema usando il tema o modello studiato;
  5. synthesis: sintetizzare, saper sintetizzare le variabili chiave, saper creare e progettare facendo uso dei concetti fondamentali appresi nel modello;
  6. evaluation: saper compiere valutazioni, di persone, aziende o obiettivi e problemi, facendo uso dei concetti appresi nel modello.

Se non compiamo questa scalata che parte dalla conoscenza concettuale fino ad arrivare ad utilizzare pienamente un modello, potremmo dire di avere solo un’effimera illusione di conoscenze, e non conoscenze vere.

“Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza.”

Stephen Hawking

Una classificazione similare a quella di Bloom è proposta da Anderson, riportata qui in originale[1] con traduzione alla pagina successiva. In corsivo i verbi relativi alle capacità attese per ciascuna fase:

I saperi in sé richiedono al minimo che una persona compia il passo 1 e 2. Il solo passo 1 (apprendimento a memoria, ascolto puro, ascolto passivo) è insufficiente. I Saperi sono un patrimonio culturale ma se questo patrimonio non viene utilizzato per fare qualcosa decadrà.

Definire il “delta” (divario) e il bisogno di incremento sui Saperi è un’operazione importante.

Ipotizziamo un modulo dedicato alla conoscenza dei principali indicatori di controllo di gestione e indici di bilancio. Appurato che situazione di partenza (X) sia una conoscenza solo vaga (un “sentito dire”) su tali indici, il modello X-Y ci costringe a chiederci cosa dovrà accadere nel “dopo”, nella fase Y. Desideriamo:

  • (Y1) la “Conoscenza esatta delle sigle di alcuni degli indicatori più usati”? o 
  • (Y2) la “Conoscenza di tutti gli indicatori”? O, ancora diversamente, 
  • (Y3) vogliamo che il soggetto sappia usare, adoperare, avvalersi degli indicatori per svolgere una analisi autonoma?

Le scienze dell’educazione sono utili al coaching, ma sono estremamente viziate e permeate dal concetto di “lezione”. 

Il metodo Deep Coaching è invece basato ampiamente sulla fase di sperimentazione di nuove abilità unita allo studio concettuale, per far si che sia l’esperienza stessa ad insegnarti qualcosa, e non solo un libro o una lezione.

Chi non osa nulla, non speri in nulla.

Friedrich von Schiller

Dobbiamo distinguere chiaramente una lezione (evento d’istruzione e cultura) da un coaching (evento di stimolazione verso l’autonomia operativa). Ad esempio, in un corso sulla leadership, vogliamo “sensibilizzare i partecipanti sui 10 principali errori che un leader può commettere” (intervento di sensibilizzazione) oppure “cambiare e trasformare il modo con cui i leader gestiscono le persone nel lavoro reale”? (intervento di sviluppo).

Come si può notare, quando l’intervento si sposta dalla conoscenza teorica (sapere quali sono i 10 principali errori), ai comportamenti sul campo (cambiare il modo di agire quotidiano), il focus formativo deve essere diverso.

In un test di apprendimento possiamo ottenere un grado di ricordo del 100% dei 10 principali errori, ma trovare che sul campo il manager continui a praticarli tutti.

Il lavoro pratico su di sé è l’unica modalità per concretizzare i nostri valori e non solo predicarli. E la continuità in questo lavoro premia chiunque la applichi.

Trovo che più lavoro duro, più fortuna mi sembra di avere.

Thomas Jefferson

Verificare gli apprendimenti tramite checklist comportamentali.

Per mettere “nero su bianco” e sistematizzare i saperi attesi da un training program è possibile costruire delle checklist o schede di controllo, da utilizzare sia per le verifiche in itinere che per quelle finali. 

Un esempio è visualizzabile da questo estratto che esplicita le conoscenze da testare negli esami per diventare pilota d’aereo certificato Airline Transport Pilots Licence di tipo (A) 

(esponiamo solo pochi di una lunghissima serie di items).

Come si può notare, ogni area di apprendimento ha un codice (a sinistra) e un Learning Objective (al centro) nel quale viene esplicitata l’attesa o performance conoscitiva da testare tramite azioni che ne dimostrino la comprensione assimilata e non solo mnemonica (i verbi parlano infatti di discutere, nominare, distinguere, differenziare, spiegare, identificare, e altre abilità misurabili).

I test di conoscenza vengono poi completati da test psicomotori e test di guida reale d’aereo.

Se esponiamo in anticipo le attese sottostanti un piano di Deep Coaching o di formazione attiva, riusciremo a fare un’impostazione del progetto di apprendimento più centrata sulle competenze chiave da assimilare e sulle prove che vorremmo essere in grado di superare, incluse le sfide che prima rischiavamo di fronteggiare impreparati.

Osa vivere la vita che hai sognato. Vai avanti e realizza i tuoi sogni

Ralph Waldo Emerson
In evidenza I punti di arresto del percorso

I punti di arresto del percorso.

Un cliente può lavorare per anni sul Saper Essere (diventando più centrato, più calmo e riflessivo, meno impulsivo, meno obbligato a fingere e più sé stesso) ottenendo grandi risultati dallo skills training psicolinguistico e bioenergetico, ma prima o poi si incontra un punto di arresto del percorso.

Arrestarsi di fronte alla “soglia dei Saperi” significa non accendere il fuoco sacro della curiosità intellettuale: perché ottengo questo risultato? Mi interessa solo il risultato o anche capire perché succede ciò che mi succede? 

Il passaggio dalla “soglia dei risultati” (vedere il cambiamento che funziona) alla “soglia dei Saperi” (capire i perché dei meccanismi) è ciò che fa la differenza tra il cambiamento di superficie e il cambiamento consapevole.

Altro esempio in campo aziendale, Saper Essere un leader. Alcuni confondono tremendamente la leadership con l’aggressività, dimenticando che un leader puramente aggressivo finirà per tenere con sé solo gli yes men o i “manager di convenienza”, quelli che abitano vicino all’azienda e non hanno voglia di traslocare, o quelli che hanno una bella visuale dall’ufficio e per questa riescono a digerire anche i climi organizzativi peggiori, e altri casi di questo tipo.

Allontanare i migliori non è un risultato. Ecco, quindi, che Saper Essere un leader richiede anche una cultura della leadership (uno studio delle teorie, modelli e esperienze altrui, una visuale ampia) e uno studio dei Saper Fare inerenti la leadership, come il Saper Fare un piano motivazionale, saper ricompensare psicologicamente (rewards psicologici), realizzare un Total Compensation Plan (piano di remunerazione e incentivazione), e altri saperi pratici. Nessun Saper Essere può dirsi completo se privo di capacità pratiche (a valle) e conoscenza/cultura (a monte).

Un Saper Essere privo di cultura (Saperi) e di traduzione in capacità pratiche (Saper Fare) è pura teoria, è un contenitore vuoto.

Saper essere costanti e perseveranti nel proprio viaggio di crescita personale è un obiettivo di portata superiore a qualsiasi skill operativa.

Cadendo, la goccia scava la pietra, non per la sua forza, ma per la sua costanza.

Lucrezio

Rimuovere i catalizzatori negativi dal processo di cambiamento: i vettori di sviluppo formativo.

Ogni stato specifico (Saperi, Saper Fare, Saper Essere) diviene vettore di crescita.

La formazione manageriale e il coaching possono rispondere ad uno solo o a più bisogni delle persone (o della committenza).

Un progetto può concentrarsi:

  • sul bisogno di Sapere di più (o conoscere cose nuove), 
  • sul bisogno di Saper Fare di più o di cambiare il modo di fare, 
  • sul bisogno di Saper Essere diversi e migliori in alcune situazioni particolari della vita professionale, soprattutto quelle più sfidanti.

Tuttavia, occorre sempre ricordare che:

  • i nuovi saperi possono entrare in conflitto con i precedenti. Quando si pensava che la terra fosse piatta, immaginiamo la reazione verso un formatore intento a sostenere che la terra fosse sferica. Poiché io la vedo piatta, la penso piatta, e tutti dicono che è piatta, come posso crederti? Chi sei tu per dire che è una sfera? Sei pazzo?
  • i cambiamenti proposti sul modo di agire possono essere rifiutati per regressione verso l’abitudine, paura del cambiamento (costo del cambiamento), o per rifiuto della fonte della proposta (effetto boomerang);
  • i cambiamenti desiderati sulle componenti più profonde (atteggiamenti, valori, spiritualità, credenze, opinioni) possono non avvenire a causa delle inerzie comportamentali e attitudinali che agiscono sul soggetto stesso, o del rifiuto di cambiamento.

I catalizzatori negativi del cambiamento uccidono il cambiamento e la crescita. Nel metodo HPM abbiamo identificato diversi catalizzatori negativi, tra cui esponiamo solo i più critici e frequenti.

I principali ostacoli di percorso (catalizzatori negativi) nella crescita personale e professionale.

  • catalizzatori negativi di sufficienza: pensare di sapere già abbastanza, non avere “sete” o “fame”;
  • catalizzatori negativi di ipo-stimolazione: chiudersi progressivamente agli stimoli esterni;
  • catalizzatori negativi di dogmatismo di appartenenza: aderire a sistemi che eliminano il bisogno di pensare, poiché qualcuno ha già pensato per te, e non si ha voglia di tollerare una possibilità di autocritica o di critica alla scuola di appartenenza: “la mia scuola formativa mi ha insegnato che…  e quindi questo non può essere vero”, oppure “io sono una terapeuta sistemico-relazionale e quindi… non posso essere d’accordo su…”;
  • catalizzatori negativi di esperienza: pensare di sapere perché “faccio questo mestiere già da x anni”;
  • catalizzatori negativi di risultato: pensare di essere “a posto” perché in un certo momento o per un certo periodo si stanno ottenendo dei risultati positivi, dimenticando che possono esservi influenze ambientali che generano tale positività, e i trend mutano nel tempo;
  • catalizzatori negativi di autoefficacia: pensare che “è troppo difficile” e non valga nemmeno la pena tentare;
  • catalizzatori negativi di locus-of-control: pensare che “è un fattore che dipende dal destino, o dagli altri, io non posso farci niente” e allargare questo pensiero anche alla sfera degli interventi possibili;
  • catalizzatori negativi di self-image: pensare che “io non sono adatto per questo ruolo, è qualcosa per persone più brave di me”.

Ricordatevi di guardare le stelle, e non i vostri piedi. Per quanto difficile possa essere la vita, c’è sempre qualcosa che è possibile fare, e in cui si può riuscire

Stephen Hawking
In evidenza Il Deep Coaching e il suo effetto sul Capitale Psicologico (PsyCap)

Il Deep Coaching e il suo effetto sul Capitale Psicologico (PsyCap)

Il concetto di Capitale Psicologico

Il Capitale Psicologico (in Inglese PsyCap, Psychological Capital) è un concetto di estrema importanza per tutto il mondo della crescita personale e del management che diventa determinante anche e soprattutto per fare Deep Coaching.

Il capitale psicologico è definito come “uno stato di sviluppo psicologico positivo caratterizzato da: 

  • avere fiducia (auto-efficacia) nel mettere in campo lo sforzo necessario per avere successo in compiti sfidanti, 
    • realizzare attribuzioni positive (ottimismo) sulle possibilità di successo ora e nel futuro, 
    • perseverare verso gli obiettivi (speranza), e, quando necessario, ridirezionare il percorso verso gli obiettivi, 
    • quando si incontrano cadute e avversità, sostenerli e rialzarsi (resilienza) per ridirezionarsi verso il successo”[1].

I quattro fattori primari sono quindi:

  • autoefficacia (Self Efficacy)
  • ottimismo (Optimism)
  • speranza (Hope)
  • resilienza (Resilience).

Quando parliamo di Capitale Psicologico e sue componenti, non dobbiamo considerarlo come qualcosa di astratto, ma di molto concreto.

Per incrementare il proprio Capitale Psicologico occorre un allenamento quotidiano e un fare concreto

L’artista è nulla senza il talento, ma il talento è nulla senza lavoro

Emile Zola

Il fattore Hope (speranza) è qualcosa di pratico, non è da confondere con una vaga o illusoria speranza che le cose migliorino o andranno bene. È costituito invece da una “speranza attiva” che si compone di determinazione, pianificazione (planning), volontà e potere della volontà (Willpower) e dalla volontà di cercare strade efficaci per arrivare ai propri scopi (Waypower).

Il fattore Efficacy è altrettanto concreto e comprende sia la chiara percezione di quali sono i progetti e le sfide per le quali possiamo dimostrare efficacia (autoefficacia, Self-Efficacy), che il fattore entusiasmo, un ingrediente fondamentale per la riuscita di qualsiasi progetto o volontà.

Il fattore Resilience (resilienza) è altrettanto un concetto attivo. Non è da confondere con un vago concetto di “forza d’animo” ma con un concretissimo sapersi risollevare dopo un fallimento o dopo che qualcosa ci ha ostacolato, unito alla perseveranza nel fare. Si compone di perseveranza, costanza, continuità, saper essere continuativi nella nostra azione anche a fronte di difficoltà, saper trovare strade alternative per il successo o linee d’azione alternative dopo che una certa azione non si è dimostrata efficace, e saper considerare ogni caduta o fallimento come qualcosa di temporaneo e sul quale possiamo risollevarci e imparare, per progredire con ancora maggiore efficacia-

Il fattore Optimism (ottimismo) è anch’esso da intendere come un ottimismo attivo. Comprende la sensazione di poter incidere sul futuro tramite le nostre azioni e le nostre scelte, e un buon livello di Locus of Control. Il Locus of Control è la variabile psicologica che indica quanto una persona è propensa ad assegnare al destino o al fato il proprio stato attuale e futuro (Locus of Control esterno) oppure considerare il proprio stato e il proprio futuro come qualcosa su cui possiamo anche incidere con le nostre scelte, comportamenti e atteggiamenti. (Locus of Control interno).[1]

Va da sé che una persona con un Locus of Control interno (ma senza scadere nell’ossessività) abbia molta più volontà di agire rispetto a chi ha un Locus of Control completamente esterno

Se io penso che non valga la pena impegnarsi tanto il destino è già scritto, non mi attiverò mai in niente e sarò solo fatalista. Se invece penso che il mio destino sia anche in parte frutto delle mie scelte, delle mie azioni e comportamenti, di sicuro mi impegnerò nello svolgere progetti concreti, programmi di crescita personale o professionale, e azioni positive.Questo vale in qualsiasi campo della vita, nello sport, nell’azienda, nella politica e nel campo sociale.

Fai attenzione alle tue abitudini, perché diventano il tuo carattere.Fai attenzione al tuo carattere, perché diventa il tuo destino

Lao Tze

Il concetto di Capitale Psicologico ha i propri fondamenti scientifici saldamente radicati nella Psicologia Positiva[1], una branca della psicologia che si occupa di come potenziare le risorse psicologiche delle persone anziché occuparsi di curare malattie psicologiche[2]. Come tale, questo tipo di psicologia si presta ad un utilizzo ad ampio spettro nell’impresa e in ogni ruolo, incluso quello del Deep Coaching.

Queste teorie suggeriscono che i quattro fattori citati siano risorse positive che agiscono in modo sinergico e non solo in modo singolo, amplificandosi l’una con l’altra fino a dare vita al massimo potenziale della personaPossiamo considerare che il potenziale personale di un manager o di un venditore – ma anche di qualsiasi persona – sia dato dalle skills, le competenze o saper fare che la persona possiede, e dal substrato psicologico, caratteriale, morale, e dagli atteggiamenti verso la vita e verso gli obiettivi e le sfide che ciascuno possiede.

In presenza di skills forti e in combinazione con un Capitale Psicologico elevato, il potenziale personale di ogni individuo ne esce enormemente potenziato.

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Visione e ideali, spiritualità

La spiritualità è un quadro molto complesso e non comprende per forza l’essere religiosi. Si può essere spiritualmente attivi e ricchi anche nel contemplare la natura, un quadro, o nel come si intende il proprio lavoro.

Si può essere attivi sul piano dei valori anche la saggezza che usiamo come consumatori (vedi le ricerche sulla consumer wisdom), il modo con cui spendiamo i nostri soldi e risorse, utilizzando un senso di scopo e dando priorità ad acquisti orientati a promuovere la crescita personale, la salute e le relazioni[1].

Esiste una spiritualità interna di cui parla Schopenhauer, un “ciò che si è”, diverso dal ciò che si ha:

Quel che importa è sempre ciò che uno è e quindi possiede in se stesso: la sua individualità infatti lo accompagna sempre e ovunque ad essa dà il colore ad ogni sua esperienza. In tutto e per tutto egli gode primariamente se stesso; ciò vale già per i godimenti fisici, ma molto più per quelli spirituali 

La visione di cui parliamo è connessa al quadro dei valori in cui crediamo, il futuro che vogliamo costruire, una causa alla quale vogliamo contribuire, una mission, una vision, ciò che riteniamo sia degno, qualcosa per cui lottare, la nostra capacità di connetterci a concetti spirituali e di trovare una spiritualità che ci alimenti.

L’aspetto della visione, dei valori e degli ideali è senza dubbio il più distante da un mondo massificato e materialistico. Il solo pensiero di aiutare e lasciare una piccola traccia verso un mondo migliore nobilita la nostra vita e la riempie di significati.

Cento volte al giorno ricordo a me stesso che la mia vita interiore e esteriore sono basate sulle fatiche di altri uomini, vivi e morti, e che io devo sforzarmi al massimo per dare nella stessa misura in cui ho ricevuto.

Albert Einstein

Tutto questo non è solo teoria, diventa pratica e azione nel momento in cui troviamo il “dove” e “come” provarci. Impegnarsi richiede focalizzazione.

Se vogliamo applicare l’analisi ad un Deep Business Coaching, lo schema da considerare è il seguente:

  1. Esiste uno scopo dell’azienda, un “perché esiste l’azienda” e questo deve diventare la mission aziendale. Ogni mission aziendale ben fatta identifica “chi aiutiamo a fare cosa”, e si basa su una relazione d’aiuto.
  2. Esistono dei valori su cui si basa il nostro agire e da cui derivano le nostre scelte. Il lavoro per far emergere questi valori non è banale ma anzi importantissimo.
  3. Esistono degli standard comportamentali. Esistono quindi dei comportamenti che si sposano bene con i valori, e altri che vi sono contrari. Di questi standard comportamentali attesi si nutre la modalità e stile di leadership, e persino la modalità di vendita e relazione con il cliente.

Esiste una strategia, che identifica una posizione competitiva nel quadro di mercato ed alcune competenze peculiari e distintive. All’interno di ogni singola strategia, esiste una linea d’azione specifica da adottare, per ogni strategia, che sia coerente con i nostri valori e con la mission. 

Il Modello Ashridge di Missione esplicita molto bene questo concetto nella sua applicazione aziendale[1], e si presta molto bene per avviare qualsiasi tipo di Deep Business Coaching.

La nostra sfida diventa anche la capacità di trasporre questo modello nella
nostra visione di vita, nei nostri valori personali, nel senso della vita (lite
purpose) che va ben oltre la nostra professione e tocca la persona nella suà
completezza, ed è appunto una pulsione spirituale, valoriale, e una vision
profonda che ci ispira.
Quando il nostro agire è spinto da valori profondi positivi, solidi e inte-
riorizzati, smettiamo allo stesso tempo di preoccuparci dell’opinione altrui,
certi e fermi delle nostre convinzioni e dei nostri valori, per cui la ricerca dei
valori di ancoraggio sui valori cui fare riferimento è un valore immenso di
per se stesso.
Ciò che pensi di te stesso è molto più importante di quanto pensano gli
altri di te.

Preoccupati di ciò che pensano gli altri e sarai sempre loro prigioniero

Lao Tzu

Possiamo ricavare da questo modello un principio guida per il Deep Coaching:

Principio 1 – Attivazione di un Deep Coaching centrato sullo Scopo

Il cambiamento positivo viene favorito dai seguenti fattori:

  • riuscire a focalizzare e rifocalizzare bene il proprio scopo di vita (Life Purpose) e/o la mission aziendale per l’impresa, facendolo diventare un faro e una guida per le azioni e le scelte personali;
  • localizzare i nostri valori guida, le nostre credenze più profonde sino agli atteggiamenti quotidiani e abitudini che applichiamo consciamente o inconsciamente alla nostra giornata, al nostro lavoro, al nostro modo di vivere;
  • localizzare e fissare gli standard comportamentali siano essi generali oppure legati ai comportamenti quotidiani, alle abitudini da far entrare nella propria vita, sino ai modi di comunicare ad ogni livello comunicativo;
  • definire le nostre strategie generali e quelle operative in grado di far emergere e valorizzare le nostre competenze, i nostri scopi, i nostri valori, trasformando lo scopo generale in progetti concreti;
  • localizzare le dissonanze tra scopi, valori, standard comportamentali e strategie, facendo emergere tali dissonanze per poter effettuare un ricentraggio importante di queste variabili.
In evidenza lettura di cambiamento dell'intervento e analisi del grado di profondità di coaching tramite il modello 3s(2)

La crescita personale come un viaggio per ritrovarsi. 

La motivazione di un coaching in profondità (Deep Coaching)

La crescita personale assomiglia ad un viaggio compiuto per ritrovarsi, o per scoprire chi siamo davvero, o cosa potremmo essere. Questo vale anche per la crescita professionale. Alla base di tutto vi è la volontà di accedere a nuovi livelli di vita, o a nuovi livelli professionali, e persino a nuovi stati emotivi. Per farlo con successo, tuttavia, serve un modello che ci guidi. 

Il modello Deep Coaching, derivazione del Modello HPM (Human Potential Modeling) sviluppato per la crescita del potenziale umano, ha proprio questo scopo.

In particolare, un metodo di crescita personale o professionale deve rispondere ad alcune domande di base: 

  1. quali fattori primari prendere in considerazione per liberare il potenziale e di conseguenza le performance? 
  2. come si può attivare una buona formazione esperienziale e un coaching in profondità (Deep Coaching) per stimolare la crescita delle energie personali, delle competenze, della progettualità, sino ai valori e alla spiritualità? 

Al centro di tutto questo ragionamento c’è la convinzione profonda che l’essere umano possa prendere in mano larga parte delle redini del suo destino. 

Per farlo, occorre fare alcuni cambiamenti radicali, proposti nel Metodo HPM (Human Potential Modeling), che qui trattiamo. Dobbiamo imparare a fare cose che non facevamo prima, come il lavoro bioenergetico sul corpo, il training mentale, e tante altre aree previste nel metodo, e farle diventare abitudini sane e positive per la nostra crescita personale.

Sembra sempre impossibile, finché non viene fatto.

(Nelson Mandela)

Se fai tuo questo pensiero, scoprirai che puoi avventurarti in nuove strade della vita, crescere, migliorare e cambiare il tuo modo di pensare, il tuo corpo, il tuo stato mentale e la tua comunicazione e i rapporti con gli altri. Puoi arricchire emotivamente la tua vita. Puoi aiutare gli altri a migliorare a loro volta. Puoi lasciare un segno del tuo passaggio. Puoi dare un contributo alla Civiltà Umana.

Il metodo si interessa sia di chi opera nelle performance di élite (testato in 30 anni di lavoro sul campo nel top management, sport agonistici, ma anche progetti aziendali di alta rilevanza strategica) che della vita quotidiana, e delle azioni di tutti i giorni.

È convinzione diffusa che le performance siano sforzi destinati ad un fine. Vero, ma proviamo per un attimo ad invertire il punto di vista, ed osservare le performance umane come un “termometro”, un indicatore del grado di libertà e di auto-espressione raggiunto. 

Questo ci permette di trovare un fine molto più nobile che non siano prestazioni aride e fini a sé stesse: l’elevazione verso livelli di energie, competenze e cause superiori, sia in senso materiale che spirituale.

Il tema dominante di tutto il nostro pensiero va ricentrato, e presto. 

Dobbiamo spostarlo dal baratro di banalità in cui il pensiero comune, la televisione, i media commerciali, le letture stupide, e la cultura mediana cercano continuamente di spingerci per non farci pensare. 

Dobbiamo cambiare i parametri che usiamo per valutare noi stessi e gli altri. Il conto corrente o la bellezza esteriore sono solo indicatori apparenti, e spesso fuorvianti, di chi sia veramente una persona e di quale sia il suo vero valore.

Dobbiamo liberarci dal cancro mentale che tu sia solo Genetica e tu non abbia alcuna possibilità di influire su ciò che sei, a cosa guardi, verso dove sei diretto, e quindi sul tuo futuro. Dobbiamo iniziare a praticare concretamente la crescita personale e non solo a desiderarla.

Qualunque cosa tu possa fare, 

qualunque sogno tu possa sognare, comincia. 

L’audacia reca in sé genialità, magia e forza. 

Comincia ora.

(Johan Wolfgang von Goethe)

La tua dote genetica può aver deciso la tua altezza, ma sono nelle tue mani il tuo potenziamento muscolare, la tua flessibilità articolare, o il tuo peso, e persino la tua rapidità di ragionamento, o la liberazione dall’ansia mentale e dallo stress inutile, o da un’immagine di sé improduttiva e dannosa. Sono tutti fattori allenabili e lavorabili con un buon programma di coaching e di training, fatti in profondità. 

Nel Deep Coaching dobbiamo mettere al centro la sacralità dell’essere umano e il forte bisogno di non sprecare nemmeno una vita, nemmeno un giorno, nemmeno un minuto, in qualcosa che non sia legato ad una visione positiva, di emancipazione e di crescita.

E, per crescere o reindirizzare il pensiero, le buone intenzioni non sono sufficienti. Serve un metodo che aiuti a canalizzare questo sforzo positivo. 

Qualsiasi sia la tua età o condizione, non è mai troppo tardi per iniziare o intensificare un lavoro su te stesso orientato alla tua crescita personale o professionale.

Non si è mai troppo vecchi per fissare un nuovo obiettivo o per sognare un nuovo sogno.

(C.S. Lewis)

Le sei aree primarie del metodo HPM sono divise in tre macro-categorie: energie, competenze, direzionalità, e queste tre categorie a loro volta sono divise in due aree: soft e hard. Questo dà vita a sei celle di lavoro, sei aree di attività sulla crescita personale che valgono sia per le prestazioni fisiche che per quelle mentali o intellettuali. Ed inoltre, si prestano ad un’analisi delle performance sia individuali che di gruppo. 

Vorrei esprimere un concentrato di senso in una frase su cui discutere:

Le performance sono un grande banco di prova per la condizione umana…

ci parlano dell’istinto umano a crescere, esplorare nuovi orizzonti, ricercare… capire chi sei… e cosa puoi arrivare a fare.

Daniele Trevisani

Ogni gara o competizione mette in moto i principi delle performance, ogni sfida aziendale, sportiva, o personale, ogni progetto, ci costringe a fare i conti con il nostro stato di preparazione e le nostre energie. Ogni volta che sentiamo la volontà di cambiare e migliorarci, la chiamata verso una vita diversa si fa strada in noi e dobbiamo imparare ad ascoltarla e non a silenziarla. Mai. 

Le buone intenzioni valgono poco se non diventano un progetto. E francamente, non è decisivo che un progetto abbia successo o fallisca, perché anche da ogni fallimento possiamo imparare. Possiamo evolvere solo se proviamo e ci avventuriamo in strade nuove.

Il viaggio verso la crescita delle energie umane, fisiche e mentali, è un percorso di esplorazione che deve diventare progetto, un progetto di Deep Coaching.

Sbagli il 100% dei colpi che non spari.

(Wayne Gretzky)

Ognuno può progredire partendo da qualsiasi stato o condizione. 

Una persona depressa o ansiosa può iniziare a vedere una luce, e questo è già progresso, tanto quanto il miglioramento di un record mondiale in qualsiasi sport e disciplina. 

Una persona immatura può maturare… chi si sente inadeguato in un lavoro può cambiare, ri-orientarsi, formarsi.

Un’impresa in crisi può generare nuove idee o trovare nuove strade, così come un’impresa vincente può fare da traino a tante startup e diventare fonte di utilità sociale per tutti.

Qualsiasi sia la condizione di partenza, occorre credere in sé stessi, nella possibilità di crescere, di migliorare, di fare dei salti in avanti.

Il progresso personale e professionale avviene solo se ci lavoriamo sopra concretamente. 

Il miracolo della vita è talmente grande che va celebrato e non sprecato, e come sottolinea Einstein:

Ci sono solo due modi di vivere la propria vita: 

uno come se niente fosse un miracolo; 

l’altro come se tutto fosse un miracolo.

Albert Einstein (citato in Michael J. Gelb, Il Genio che c’è in te).

Ogni volta che alleni il tuo corpo o la tua mente, rendi omaggio al miracolo della vita che ha reso possibile che in quel giorno tu ti sia potuto allenare e formare, mentre altri più sfortunati, non possono.

Ogni giorno che incontri un pensiero buono, ringrazia per l’incontro e fallo tuo.

Dalla percezione del prodotto al cliente

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

La linea di percettività indica la soglia oltre la quale un sistema (prodotto-azienda) entra in contatto con un altro sistema (cliente-utilizzatore).

Il contatto avviene non solo attraverso la vista ma in generale attraverso qualsiasi senso della percezione coinvolto (vista, udito, tatto, olfatto, gusto, cinestesi, ergogenesi). Le componenti o elementi di un prodotto/prestazione vengono divisi nel metodo ALM in elementi “al di sotto della linea di percettività” (BPL – below perceptivity line) e elementi “al di sopra della linea di percettività” (APL – above perceptivity line).

Se analizziamo unicamente la percezione visiva, gli elementi vengono divisi invece in AVL (elementi oltre la linea di visibilità) e BVL (elementi che non superano la linea di visibilità e quindi non entrano in contatto visivo con il cliente).

Ad esempio, la cura dell’assemblaggio esterno di un PC è un elemento AVL. Esso è ampiamente esposto alla linea di visibilità, mentre il mouse può essere analizzato sia come elemento AVL (dal punto di vista visivo) ma anche come elemento APL, in quanto l’utilizzatore viene costantemente a contatto con esso a livello tattile, e non solo visivo.

La valutazione di un PC può essere influenzata negativamente da un primo impatto in cui emergano aspetti non conformi alle aspettative. Tra questi: un tasto di accensione/spegnimento difettoso, un’unità floppy traballante, la presenza di urti ed abrasioni evidenti o palesi errori di assemblaggio (spazi e fessure tra le giunzioni), oppure un mouse dal puntamento irregolare, poco scorrevole, con tasti duri e soggetti ad incastrarsi in continuazione.

Altre caratteristiche del PC sono invece BPL, ovvero non creano performance apparente e quindi satisfaction del consumatore. L’ordine e la cura dell’assemblaggio dei cavi interni è un esempio: i cavi potrebbero essere contorti e attorcigliati ma questo non determina un cambiamento nella prestazione percepita (sempre che il computer non venga aperto e il cliente abbia capacità discriminante tale da capire che l’assemblaggio non è curato).

La presenza di elementi sommersi della prestazione si può notare anche in un servizio, quale una gestione finanziaria: la gestione di un portafoglio di titoli può sembrare alquanto soddisfacente se il cliente conosce solo il risultato iniziale (investimento in gennaio pari a 100) e il risultato finale ad un anno (130 unità risultanti a dicembre), ma questa costituisce solo la prestazione APL. Se il consumatore sapesse che durante l’anno di gestione si sono verificati momenti in cui il valore è sceso a 60 (elemento BPL), la prestazione complessiva verrebbe giudicata alquanto meno soddisfacente. Il cliente si accorgerebbe di aver corso un rischio superiore rispetto alla pura valutazione del risultato (differenza netta tra capitale pre-investimento e successivo all’investimento).

Il grado con cui un elemento è esposto ai sensi del cliente determina la sua valenza nell’incidere sulla valutazione complessiva, o carico comunicazionale. Da ciò emerge il seguente principio:

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Semantica articolo. Le parole chiave di questo articolo sono:

Linea di percettività

Sistema prodotto azienda

Sistema cliente

Senso della percezione

Valutazione diretta

Conformità delle aspettative

Prestazione percepita

Elementi visivi

Indagine qualitativa

Indagine quantitativa

Qualità percepita

Soddisfazione del cliente

Aspettative del consumatore

Valore percepito

Affidabilità del prodotto/servizio

Percezione dell’utente

Esperienza utente

Attributi del prodotto/servizio

Reputazione del marchio

Feedback dei clienti

Percezione della convenienza

Sensazione di sicurezza

Percezione del valore aggiunto

Confronto con alternative

Immagine del marchio

Impatto emotivo

Consistenza della performance

Percezione della velocità/efficienza

Soddisfazione post-acquisto

Percezione del supporto/clienti

La progettazione del prodotto nelle strategie di comunicazione visiva

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Nonostante le immagini retinali si muovano ad ogni saccata, nonostante un sistema visivo che prende delle “istantanee” del mondo, ciascuna separata da un periodo nel quale siamo essenzialmente ciechi, la nostra esperienza visiva è quella di una realtà continua ed ininterrotta. Sentiamo di vedere le intere scene per tutto il tempo nel quale teniamo aperti gli occhi. La percezione visiva, in altre parole, è una continua opera di ricostruzione della realtà.

Perché il mondo non appaia “saltare di qua e di là” come dovrebbe, nonostante il fatto che l’immagine retinica si sposti da una fissazione all’altra, è spiegato dalla teoria dell’integrative visual buffer [1] la quale assume che in ogni fissazione, tutte le informazioni provenienti dalla retina vengano codificate e memorizzate in un buffer visivo (memoria tampone).

Le dinamiche della percezione visiva spiegano questioni apparentemente strane nella fruizione di un prodotto. Ad esempio, l’eccessiva densità di una pagina web (ripiena di links, oggetti, immagini, grafici, oggetti multimediali, testi), rende necessaria una quantità elevata di saccate e questo significa assorbimento elevato di energia cognitiva. Poiché l’essere umano è alla costante ricerca di una omeostasi energetica, la richiesta di energia elevata significa costo di fruizione elevato, e si riverbera negativamente sulla gradevolezza. Pertanto, la progettazione visiva dei prodotto e degli elementi grafico-comunicazionali deve considerare diversi elementi: il costo di fruizione, il tempo disponibile per elaborare l’immagine ed il prodotto, e l’impegno/capacità di elaborazione del cliente (maggiore o minore disponibilità ad impegnarsi nella decodifica di segnali complessi). Solo grazie a questa analisi è possibile determinare strategie di comunicazione visuale efficienti. Ad esempio, uno studente di ingegneria possiederà probabilmente livelli elevati di capacità di elaborazione, per quanto riguarda i prodotti tecnologici complessi (es: un diagramma di flusso che spiega come funziona un videoregistratore, nel libretto delle istruzioni). Per un pensionato senza titoli di studio, lo stesso foglio di carta può costituire un geroglifico incomprensibile. Questo richiede per l’azienda una grande capacità di sviluppare prodotti e informazioni adatte alle capacità di elaborazione dei propri clienti target, considerandone le caratteristiche ed i limiti (adattamento comunicazionale al target).


[1] Breitmeyer, B. G. (1984).

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Semantica articolo. Le parole chiave di questo articolo sono:

Esperienza visiva

Percezione visiva

Ricostruzione della realtà

Buffer visivo

Dinamiche della percezione visiva

Energia cognitiva

Omeostasi energetica

Costo di fruizione

Progettazione visiva del prodotto

Strategie di comunicazione visiva

Capacità di elaborazione

Identità di marca

Estetica del prodotto

UI/UX design

Conformità agli standard di design

Architettura dell’informazione

Progettazione dell’interfaccia utente

Usabilità del prodotto

Stile grafico

Colori e contrasti

Iconografia

Layout e struttura visiva

Branding visivo

Immagini e grafica

Tipografia

Materiali e texture

Design responsivo

Coerenza visiva

Intuitività del design

Ricerca dell’esperienza utente

Innovazione nel design

La valutazione del cliente: fiducia e immagine dell’azienda

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

I percorsi di fruizione dell’immagine sono estremamente importanti anche per gli effetti che producono sulla creazione di fiducia e senso di affidabilità aziendale. In termini commerciali, le informazioni che possono essere colte nella fruizione di un negozio, di un prodotto, nella visita di un’azienda, nello scrutare una persona o un prodotto, si categorizzano in due classi importanti, i segnali generatori di fiducia (trust signals) e i segnali generatori di sfiducia (distrust signals). A questi segnali deve essere data attenzione primaria, in quanto essi possono accelerare o bloccare l’intenzione d’acquisto.

Durante l’acquisto avvengono numerosi atti di valutazione degli ambienti. La percezione di tali ambienti, proprio per via delle meccaniche visive sottostanti, si soffermerà su alcuni dettagli e non su altri.

Il percorso valutativo del cliente all’interno del punto di vendita (o qualsiasi altro punto di contatto) sarà costellato, in altre parole, dal ricevimento di segnali e di informazioni. I trust signals svolgono il ruolo di elementi di rafforzamento della fiducia e dell’immagine dell’azienda. I distrust signals sono invece elementi di detrazione, negativi rispetto alla formazione della fiducia.

Se immaginiamo ciò che osserva un cliente all’interno di un’azienda, elementi magari casuali, quali un ordinativo di un’azienda importante, dal marchio prestigioso, collocato su una scrivania possono costituire trust-signals, mentre una lettera di reclamo da parte di un consumatore, o la ruggine sul cancello d’ingresso, o la scortesia del persona, costituiscono distrust-signals.

L’azienda orientata alla crescita deve analizzare attentamente quali elementi della propria comunicazione stiano funzionando da trust signals e quali da distrust signals, analizzando accuratamente ogni elemento di contatto con il cliente e con il pubblico (vetrine, prodotti, cataloghi, siti web, personale, ecc.) attraverso apposite griglie valutative (griglie di analisi dell’immagine visuale e griglie di emersione dei segnali negativi aziendali).

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Semantica articolo. Le parole chiave di questo articolo sono:

Valutazione del cliente

Segnali di fiducia

Immagine dell’azienda

Percorso di valutazione

Elementi di comunicazione

Fiducia del cliente

Campo percettivo

Affidabilità aziendale

Intenzione d’acquisto

Recensioni positive

Certificazioni

Badge di sicurezza

Testimonianze dei clienti

Rating affidabili

Marchi di fiducia

Politiche di rimborso

Garanzie di soddisfazione

Verifica dell’identità

Protezione dei dati

Badge di autenticità

Partnership con marchi rinomati

Timbri di approvazione

Trasparenza nelle pratiche commerciali

Politiche di privacy robuste

Certificazioni SSL

Tracciamento dell’ordine

Supporto clienti reattivo

Esperienza positiva degli utenti

Pubblicazioni sui media affidabili

La visione dei prodotti come strategia di marketing

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Durante le saccate, le persone sono essenzialmente cieche. Specificamente, quando l’immagine del mondo viene proiettata attraverso la retina durante una saccata, vengono raggiunte velocità fino a 400 gradi di rotazione al secondo.[1]

Poiché la retina non può elaborare con successo le caratteristiche dettagliate dell’immagine a queste velocità, l’evento retinale risultante è una sfocatura dell’immagine. In altre parole, le saccate rappresentano una sorta di periodo morto in cui non avvengono processi significativi di elaborazione dell’informazione. L’attenzione si concentra quindi sui punti salienti dell’immagine.

La valutazione dei punti salienti è estremamente importante per il marketing. Sia nell’osservazione dei prodotti che nell’osservazione degli ambienti di vendita e degli stabili aziendali, l’attenzione si rivolge ai punti che emergono dal contesto – positivamente – ad esempio una pianta ornamentale, o una persona attraente – o negativamente – come una chiazza di sporco sul muro, o la povere su un tavolo, o un litigio in corso tra due dipendenti.

La sommatoria di tanti dettagli genera l’impressione complessiva.

Sia osservando i prodotti, oppure gli ambienti dei punti di vendita o ancora gli stabili aziendali, gli uffici, o le persone che vi lavorano, i clienti sottostanno alle leggi della fisiologia percettiva, e questo significa che essi:

a) prestano maggiore attenzione soprattutto ai punti di differenziazione dal contesto (positivi e negativi), e

b) non colgono assolutamente l’intera mole di informazione esistente, ma ne colgono solo una parte, generando impressioni sulla base di informazioni parziali (in quanto elaborare ogni singola informazione presente è eccessivo per le capacità umane e impossibile da praticare).

Questo determina la necessità per l’azienda di dirigere attivamente l’attenzione del cliente a specifiche porzioni di informazione, più sintetiche e strategiche, da cui emergano le informazioni e le impressioni volute.

In diversi campi vengono impiegate tecniche di eye tracking (osservazione dei movimenti oculari e punti di fissazione) per capire i percorsi di scansione. Queste tecniche si estendono anche all’analisi dei messaggi pubblicitari, per monitorare la reazione ai filmati, capire quali sono i punti di attenzione dei prodotti, e nello studio delle interfacce grafiche in termini di usabilità, affaticamento, e piacevolezza dell’esperienza visiva.

Questi metodi utilizzano la tecnica della rilevazione delle saccate (saccade detection) in abbinamento alla memorizzazione del punto fissato dall’occhio, a supporto degli studi di usabilità delle interfacce (usability study). Tra gli oggetti di studio vi sono l’affaticamento percettivo, la capacità di creazione di interesse da parte della comunicazione grafica (packaging, design, advertising), la capacità del prodotto di “emergere dal contesto” e la progettazione delle interfacce computerizzate


[1] Per approfondimenti, vedi i seguenti studi: Breitmeyer, B. G. (1984). Visual masking: An integrative approach.  New York: Oxford University Press; Bridgeman, B., van der Heijden, A., & Velichkovsky, B.  (1994). A theory of visual stability across saccadic eye movements.  Behavioral and Brain  Sciences, 17, 247-292; Burr, D. C., Morrone, M. C., & Ross, J. (1994).  Selective suppression of the  magnocellular visual pathway during saccadic eye  movements.  Nature,  371(6),  511-513; Grimes, J. (1996). On the failure to detect changes in scenes across saccades. In K. Akins (ed.), Perception (Vancouver Studies in Cognitive Science, vol. 5). New York: Oxford University Press; Grusser, O.J. (1972).  Metacontrast and the perception of the visual world.  European  Journal of  Physiology, 332 (Suppl.); McConkie, G. W., & Currie, C. (1996). Visual stability across saccades while viewing  complex pictures.  Journal of Experimental Psychology: Human Perception and  Performance, 22(3), 563-581; Volkman, F., Schick, A., Riggs, L. (1968).  Time course of visual inhibition during  voluntary saccades.  Journal of the Optical Society of America, 58, 1310-1414.

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Semantica articolo. Le parole chiave di questo articolo sono:

Osservazione dei prodotti

Leve di marketing

Sommatoria dei dettagli

Eye tracking

Differenziazione dal contesto

Informazioni strategiche

Attenzione del cliente

Monitoraggio delle reazioni

Affaticamento percettivo

Creazione di interesse

Segmentazione di mercato

Targeting

Posizionamento

Analisi del comportamento del consumatore

Ricerca di mercato

Branding differenziato

Personalizzazione dell’offerta

Psicologia del consumatore

Sensibilizzazione al marchio

Attributi distintivi del prodotto

Esperienza del cliente

Strategie di comunicazione mirata

Studio della concorrenza

Adattamento del prodotto

Percezione del valore

Preferenze dei consumatori

Innovazione di prodotto

Test di mercato

Canali di distribuzione diversificati

Analisi della fedeltà del cliente

Scansione visiva e segnali di attenzione

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

In termini di percezione visiva, è utile rivolgersi ad un ulteriore strumento fornito dalla psicologia: l’analisi dei percorsi di scansione dell’immagine (scan path).

Le ricerche hanno evidenziato che le persone non hanno la capacità di cogliere istantaneamente tutti i punti di una scena o di un’immagine, ma seguono, con tempi più o meno lunghi, dei precisi percorsi di fruizione. Ad esempio, una scena visiva verrà analizzata secondo percorsi dominati da segnali di attenzione e altri meccanismi psichici, e non scansionata come da uno scanner – dall’alto al basso, da destra a sinistra o viceversa.

I percorsi possono venire studiati e riprodotti, come evidenziato da Yarbus (1967)[1], che ha sottoposto a scansione i punti di osservazione di un dipinto, ricavandone i percorsi visivi.[2]

Inoltre, ciò che è emerso dagli studi, è che i percorsi di scansione variano a seconda del compito specifico richiesto al fruitore. I percorsi oculari saranno diversi se si chiede all’osservatore di cercare di individuare la possibile tipologia di stanza nella quale avviene la scena (casa, o albergo) o ancora se si chiede di definire cosa stia succedendo nella scena nei rapporti tra le persone (litigio, amicizia, tradimento, ecc.).

Le ricerche illustrano che l’umore dei soggetti modifica radicalmente l’interpretazione dell’immagine. In un esperimento di Leuba e Lucas (1945)[3] veniva mostrata la stessa immagine (una scena di persone sedute su un prato mentre ascoltano la radio) a soggetti nei quali era stato creato, tramite ipnosi, un diverso grado di umore. I soggetti indotti in stato di happy mood (felicità) interpretavano in essa un paesaggio con persone che chiacchieravano piacevolmente; i soggetti in stato di critical mood (critica) vi vedevano persone che stavano “rovinando i propri pantaloni sedendosi su un prato”, i soggetti in anxious mood (ansietà) vedevano nella stessa “persone in apprensione”.

Rimanendo in tema di scansione visiva, il procedimento di scansione può essere applicato ad una fotografia, ad un quadro, o alla percezione visiva di un prodotto. Se potessimo seguire i nostri movimenti oculari mentre osserviamo un’immagine, saremmo sorpresi nel notare che i nostri occhi non si muovono lentamente o continuamente, sul piano dell’immagine, ma agiscono freneticamente.

Per notare questo fenomeno, è sufficiente osservare un amico mentre visualizza una fotografia o disegno. Potremo notare il soggetto effettuare una serie di fissazioni (nelle quali l’occhio si blocca per frazioni di secondo) e saccate[4] (movimenti balistici veloci).

Un percorso di scansione (scan path), è composto da una sequenza di fissazioni e saccate. Tipicamente, le persone realizzano 2-3 fissazioni al secondo.[5]


[1] Yarbus, A.L. (1967). Eye Movements and Vision. New York: Plenum Press.

[2] Per visualizzare diversi esempi di percorsi di scansione visiva, visitare il sito:

 www.medialab-research.com/alm2/ – come si può notare, ad esempio nell’immagine del dipinto di Yarbus, l’attenzione aumenta in prossimità dei volti dei personaggi nella scena.

[3] Leuba, Clarence & Charles Lucas (1945). The effects of attitudes on descriptions of pictures. Journal of Experimental Psychology, 35: 517-24.

[4] Movimenti balistici molto veloci dell’occhio. Poiché l’occhio umano può focalizzare chiaramente solo un angolo visivo piccolo, il bulbo oculare deve attuare molti movimenti per interpretare il panorama visivo.

[5] Internet Psychology Lab, University of University of Illinois at Urbana-Champaign.

Alcune zone del campo visivo subiscono numerose fissazioni (zone ad alta concentrazione), mentre altre vengono praticamente ignorate.

La ragione per la quale dobbiamo muovere gli occhi è che il potere di elaborazione reale dell’occhio è contenuto in una regione minuscola della retina chiamata fovea[1]. È qui che vengono processati i colori e i dettagli.

Solo una piccola parte di tutta l’informazione disponibile viene percepita direttamente dalla fovea. Perciò, per vedere l’intera scena, dobbiamo dirigere gli occhi scansionando diverse sue porzioni.

Perché si seguano certi punti della scena e non altri, non è ancora ben determinato. I misteri della percezione non sono stati ancora del tutto svelati. Come evidenzia il centro di ricerca IPL:

“Come il nostro sistema di percezione visiva crei un’esperienza visiva ricca e continua partendo da una sequenza di fissazioni e saccate è una delle questioni più intriganti e affascinanti oggi nella psicologia cognitiva visuale.”

Ma cosa accade durante la scansione? Il processo principale è costituito dal fatto che si attivano filtri attentivi, i quali attuano una  scansione costante per valutare se vi siano elementi che meritano di essere posti al centro della fovea.

Tra gli elementi che danno luogo a questo spostamento di attenzione vi sono in particolare i movimenti non attesi nel contesto in cui ci si trova. Se ad esempio durante la lettura di un libro si coglie un movimento laterale, un oggetto o un’ombra che si muove, l’attenzione si sposta per scansionare quel movimento, alla ricerca di segnali che ci indichino che si può stare tranquilli e possiamo continuare a leggere, o che piuttosto dobbiamo iniziare a preoccuparci.[2]

Studi etnometodologici in corso da parte dell’autore evidenziano che tra le prime attività di scansione sociale messe in atto all’ingresso di un certo ambiente (un bar, un ascensore, un’aula didattica), vi è la ricerca inconscia dei possibili segnali di pericolo (danger cues), riguardante diverse possibili fonti (persone pericolose, ambienti, vie di fuga, spazi disponibili) seguita dalla ricerca di facce note, osservazione dei personaggi e delle situazioni sociali che stanno accadendo (social scan).

Lo stesso avviene in termini di scansione dei prodotti/servizi: i clienti annotano possibili fonti di pericolo nel prodotto (es: un elemento spigoloso e appuntito in un gioco per bambini) e negli ambienti (es: personaggi loschi all’ingresso di un bar) e da questo derivano le azioni da compiere (acquistare o non acquistare, entrare o non entrare, stare allerta o rilassarsi).

Il tutto avviene – in condizioni normali – al di fuori della sfera della consapevolezza, tranne che per individui addestrati professionalmente, ad esempio bodyguard, security, forze dell’ordine.

Oltre alla ricerca di fonti di pericolo, il prodotto viene scansionato alla ricerca di segnali interessanti, di elementi evocativi, che si collegano prevalentemente all’inconscio (es: forme anatomiche e sessuali).


[1] La parte della retina che contiene la maggiore densità di coni visivi.

[2] Alcuni esempi visivi di scan-path, prodotti dall’Internet Psychology Lab della University of Illinois, sono riportati al sito: http://www.medialab-research.com/alm2/

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

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La soddisfazione del cliente nella psicologia della percezione

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La funzione di risposta del mercato definisce il tipo di reazione che il consumatore o cliente sviluppa a fronte di un certo stimolo. Nel nostro lavoro, è necessario collegare questa funzione ad alcuni meccanismi che avvengono nella percezione umana, in particolare il fenomeno delle soglie percettive.

La psicologia della percezione identifica due tipi di soglie – soglia assoluta e soglia differenziale – le quali generano altrettanti tipi di prestazione (prestazione assoluta e prestazione differenziale).

La soglia assoluta identifica la quantità minima di stimolazione sensoriale necessaria affinché un particolare stimolo (una vibrazione, un oggetto, un colore) sia percepito da un individuo.

La soglia differenziale fa riferimento al differenziale di stimolazione sensoriale che determina per l’individuo la consapevolezza di un cambiamento, l’accorgersi di una mutazione nello stato precedente. È quindi basata sul concetto di percezione della differenza di intensità.

Questi fattori percettivi devono entrare al centro del processo imprenditoriale di gestione della customer satisfaction. Ad esempio, produrre un miglioramento nelle vibrazioni di un volante (riduzione di vibrazioni) quando non esiste un margine per ottenere un miglioramento percepibile (condizione di ceiling-effect) è un intervento che non supera la soglia differenziale, e sostanzialmente uno spreco di investimenti.

Nel caso evidenziato, lo sforzo dell’azienda per l’incremento di prestazioni tecnico/ingegneristiche (passare dal punto A al punto B) produce anche un incremento della prestazione percepita nel cliente. Lo sforzo viene premiato. Nel passaggio da B a C, l’incremento della prestazione reale (tecnico-ingegneristica) è ancora più elevato, ma la prestazione percepita dal cliente migliora di poco. Lo sforzo è poco premiato. Nel passaggio da C a D, invece, la prestazione ingegneristica migliora ma non avviene alcun effetto percettivo nel cliente. Lo sforzo non viene per niente premiato. Quindi sostanzialmente si tratta di denaro sprecato, a meno che l’azienda non si impegni in attività di comunicazione in grado di valorizzare l’investimento e renderlo più percepibile, più visibile, più tangibile per il cliente.

Gli incrementi prestazionali non sono tali, dal punto di vista di marketing, se non superano la soglia di sensibilità del fruitore.

Lo sviluppo del prodotto, pertanto, dovrebbe essere guidato dalla ricerca di miglioramenti percepibili, in cui l’investimento produca effetti tangibili.

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Customer satisfaction

Psicologia della percezione

Risposta del mercato

Reazione del consumatore

Soglia percettiva

Stimolazione sensoriale

Stimolo percepito

Consapevolezza di cambiamento

Differenza di intensità

Processo imprenditoriale
Percezione

Differenziale

Psicologia cognitiva

Interpretazione

Bias cognitivi

Effetto contrasto

Teoria della prospettiva

Psicologia sociale

Framing

Selezione percettiva

Processi decisionali

Influenza sociale

Credenze distorte

Attribuzione

Teoria della gestalt

Esposizione selettiva

Filtri percettivi

Fattori culturali

Contesto situazionale

Schemi mentali

I filtri percettivi: distorsioni e valutazioni soggettive

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Ciò che il cliente valuta nella sua esperienza del prodotto, non è la sua reale consistenza, ma ciò che del prodotto “filtra” attraverso (1) i sensi biologici, e (2) attraverso gli schemi culturali di riferimento o frames culturali, passando per i filtri percettivi e mnemonici (attenzione selettiva, percezione selettiva e ricordo selettivo).

I processi di filtratura distorcono la percezione oggettiva, sino a trasformare completamente le valutazioni.

Come riporta Packard, nella sua analisi sociologica della persuasione dei consumatori, gli ostacoli psicologici verso un prodotto sono persino in grado di trasformare la percezione della realtà. Il caso esposto da Packard riguarda la margarina. Questo prodotto, nel contesto del mercato USA degli anni ’40 e ‘50, assumeva una immagine di prodotto artificiale, sintetico, quasi pericoloso, da “massaia poco attenta alla famiglia”, mentre il suo concorrente, il burro, era visto come naturale, da “brava mamma”, pulito. Vediamo cosa emerse dalle ricerche:

Cheskin dimostrò in modo inequivocabile il carattere irrazionale della ostilità che la margarina incontrava. Durante una colazione, cui partecipava un numeroso gruppo di donne, Dichter chiese alle convenute se fossero in grado di distinguere il burro dalla margarina. Oltre il 90% rispose affermativamente, aggiungendo di preferire il burro perché la margarina aveva un sapore «oleoso», «grasso», «più simile al lardo che al burro», per citare alcune definizioni. A ogni signora presente furono allora serviti due medaglioni, uno giallo (di margarina) e l’altro bianco (di burro fresco). Si trattava di riconoscere, al gusto, l’identità di ciascuno, e di definirne il sapore. Oltre il 95% delle donne scambiarono la margarina gialla per burro, definendola di gusto «puro» e «fresco», e il burro bianco per margarina, lamentandone il sapore oleoso e grasso, simile a quello dello strutto. Avevano, insomma, trasferito al palato una sensazione ottica.

Più recentemente, lo stesso fenomeno è stato dimostrato da Westcombe e Wardle (1997)[1] in un esperimento riguardante un diverso prodotto: lo yogurt. I ricercatori hanno dimostrato che il semplice fatto di apporre una etichetta diversa su una confezione di yogurt (con la dicitura “a basso contenuto di grasso”) causava una valutazione di minore gustosità. Anche se lo yogurt era assolutamente lo stesso.

Riconoscere i filtri che operano su noi stessi consente di divenire consumatori più consapevoli. Per il professionista di marketing, riconoscere i filtri che operano sui consumatori significa poter anticipare le reazioni al prodotto e alla comunicazione.

La combinazione di distorsioni percettive e valutazioni soggettive genera comportamenti di acquisto che sono lontani dall’essere facilmente prevedibili con l’intuito. Solo la ricerca è in grado di fare luce dove l’intuito fallisce.

Dobbiamo considerare tutta la gamma di possibili filtri che si frappongono tra la realtà “vera” e la realtà percepita dal consumatore. Questi filtri – biologici, mnemonici e culturali – determinano il passaggio dalla realtà oggettiva ad una realtà interpretativa.

La percezione viene distorta anche a causa di un fenomeno diverso: il punto di osservazione. Qualsiasi oggetto o idea può infatti essere osservato ed esperito da molteplici punti. L’osservazione da tutti i punti possibili è spesso impossibile, richiederebbe troppo tempo. Accade quindi che due clienti sviluppino impressioni diverse dello stesso prodotto o azienda, a causa delle diverse esperienze da loro avute.


[1] Westcombe, A., & Wardle, J. (1997). Influence of relative fat content information on responses to three foods. Appetite, 28 (1), 49-62.

Nell’esempio, l’oggetto reale è composto da un ovale e quattro elementi: A, B, C, D, dei quali tuttavia i due soggetti osservano porzioni diverse e percepiscono caratteristiche diverse. L’esperienza delle due persone, è stata diversa. Lo stesso accade con le aziende, i prodotti, e le prestazioni.

La presenza di diversi punti di osservazione e di filtri alla percezione (biologici, mnemonici, culturali) determina una trasformazione da realtà oggettiva a realtà percettiva, le cui dimensioni possono assumere un divario anche molto ampio.

Attraverso tecniche qualitative e sperimentali è possibile determinare i valori di utilità attribuiti dal fruitore alle specifiche caratteristiche del prodotto/servizio, identificando le variabili critiche della qualità percettiva e i livelli che ne ottimizzano le prestazioni.

I meccanismi percettivi generano effetti a  livello di marketing, nella valutazione dei prodotti e dei servizi. Ad esempio, un viaggio aereo può generare maggiore ansia ed apprensione per la sicurezza rispetto ad un autobus di linea, anche se alla prova dei fatti (statisticamente parlando) la probabilità di incidente è inferiore.

Allo stesso tempo, un’acqua potrebbe risultare assolutamente gradevole per il consumatore anche se microbiologicamente impura, radioattiva a livelli mortali, o inquinata da elementi non percepibili. Questo determina due tipologie di prestazione: la prestazione oggettiva (rilevabile in laboratorio e basata su dati fisici) e la prestazione soggettiva, la quale risiede unicamente nelle sensazioni del fruitore.

Accanto alla cura tecnica del prodotto che l’etica aziendale deve imporre, assumono un ruolo primario nella progettazione del prodotto e più in generale del mix aziendale fattori di pertinenza psicologica, quali le soglie percettive, la linea di percettività e i fattori di percettività.

Questa impostazione costituisce una importante differenza rispetto al mainstream dominante nelle imprese, focalizzato sugli aspetti prestazionali tecnici piuttosto che sulla psicologia del prodotto.

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

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Distorsioni percettive

Valutazioni soggettive

Filtri percettivi

Punti di osservazione

Caratteristiche del prodotto

Esperienze soggettive

Filtri del consumatore

Anticipare le reazioni

Prevenire i consumi

Comportamenti di acquisto

Prevenzione

Consumo consapevole

Educazione finanziaria

Consapevolezza del consumatore

Budgeting

Pianificazione finanziaria

Analisi delle esigenze

Resistenza agli impulsi

Stili di vita sostenibili

Marketing etico

Autoregolamentazione del consumo

Promozione della frugalità

Decrescita economica

Riduzione degli sprechi

Comunità di condivisione

Consumo responsabile

Pensiero critico

Valutazione dei bisogni reali

Gestione del credito

Dalla prestazione oggettiva alla prestazione soggettiva

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Per direzionare la crescita e lo sviluppo del prodotto/servizio, è necessario introdurre un concetto chiave: la fonte di valutazione della prestazione (PES: performance evaluation source), i fattori in base ai quali il consumatore giudica positiva o negativa una prestazione resa da un prodotto o servizio.

Per raggiungere questo obiettivo è necessario realizzare un’importante rivoluzione, spostando l’oggetto della customer satisfaction dalla prestazione oggettiva alla prestazione soggettiva. I due concetti sono molto diversi.

La prestazione oggettiva riguarda aspetti prestazionali misurabili in laboratorio, non discutibili. La prestazione soggettiva riguarda invece la valutazione realizzata dal singolo consumatore, in base a criteri del tutto personali, sotto l’influenza dei propri filtri biologici, psicologici, culturali e sociali.

Mentre la qualità ingegneristica misurabile in laboratorio costituisce un dato di fatto, è necessario considerare che per il consumatore la base di misurazione della performance non avviene in laboratorio, ma è data dalle sensazioni percepite durante l’uso.

Non è possibile per il consumatore medio realizzare una misurazione scientifica della qualità. Di fatto egli si affiderà ai propri sensi, agli stimoli che provengono da un rapporto personale con il prodotto, soprattutto con i suoi aspetti di superficie, con i quali esso viene a contatto.

Per un ingegnere, ad esempio, può essere assolutamente irrilevante il rumore o suono prodotto dal meccanismo di espulsione dei dischetti dal PC. Per un consumatore può essere inconsciamente un segnale molto forte, in quanto utilizza inconsapevolmente questa informazione per trarre inferenze sulla robustezza del prodotto, sul suo grado di tecnologia, e sulla sua cura costruttiva.

Poco importa se queste sue inferenze, se queste sue deduzioni sono magari sbagliate. Se alla fine determinano un mancato acquisto, o un’impressione negativa di prodotto, diventano molto importanti. Quindi, per uno psicologo del prodotto, per il marketing, e per il fatturato aziendale, esse sono fondamentali.

In questo campo assistiamo ad uno scontro filosofico, tra orientamento al prodotto (ingegneristico) e orientamento alla psicologia del fruitore (orientamento di marketing), che permea molte aziende contemporanee, produce forti conflitti interni all’impresa.

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Percezione soggettiva

Percezione oggettiva

Orientamento di marketing

Marketing mix

Parametri di valore

Valutazione della prestazione

Sviluppo del prodotto

Customer satisfaction

Filtri biologici

Filtri psicologici

Filtri culturali

Filtri sociali

Prestazione

Qualità

Efficienza

Efficacia

Misurazione

Standard

Analisi

Test

Benchmarking

Conformità

Indicatori di performance

Feedback

Miglioramento continuo

Soddisfazione del cliente

Rendimento

Monitoraggio

Reportistica

I 5 principi fondamentali nella vendita consulenziale e negoziazioni complesse

Percezione del prodotto e psicologia dell’acquisto

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Entriamo, a questo punto, nella sfera della percezione del prodotto e nella psicologia della fruizione. Tratteremo in particolare del concetto di prodotto psicologico e di come il prodotto sia da considerare, in realtà, una pura entità percettiva, la cui natura fisica viene analizzata da innumerevoli filtri mentali.

Capire l’aspetto percettivo è indispensabile per acquisire vantaggio competitivo nella progettazione. Nella psicologia del consumo non esiste un prodotto, ma tanti prodotti quanti sono i soggetti che lo valutano. In altre parole, il vissuto di ciascuno in riferimento al prodotto è estremamente personale. Per qualcuno un marchio quale Rolls Royce può significare prestigio, per altri decadenza. Per qualcuno la pelliccia è eleganza e signorilità, per altri arroganza e ignobile tentativo di affermare uno status a spese di creature innocenti.

A parte gli aspetti culturali, vi sono altri elementi che modificano la percezione e valutazione del prodotto. Tra questi, gli aspetti biologici e fisiologici dell’essere umano – i limiti che essi impongono – condizionano fortemente la percezione dei prodotti e la loro valutazione.

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Percezione del prodotto

Psicologia d’acquisto

Marketing mix

Scenari

Prodotto psicologico

Valutazione del prodotto

Analisi delle prestazioni

Confronto qualitativo

Indagini di mercato

Feedback dei clienti

Benchmarking competitivo

Valutazione dell’affidabilità

Studio della concorrenza

Valutazione dell’esperienza utente

Analisi della domanda

Valutazione della sicurezza

Esame delle caratteristiche

Misurazione delle performance

Valutazione della sostenibilità

Valutazione del rapporto qualità-prezzo

Valutazione del ciclo di vita del prodotto

Test di campo

La prima legge del valore del prodotto

©Copyright. Articolo estratto con il permesso dell’autore dal libro di Daniele Trevisani: “Psicologia di Marketing e Comunicazione” Franco Angeli Editore, Milano

Una prima formula generale di valore del prodotto nel metodo ALM, basata sulle considerazioni esposte sopra, è la seguente:

Ciascun prodotto/servizio ha quindi un valore totale che è la somma delle sue diverse proprietà di intervento.

Alla luce di questa teoria, alcune domande importanti, per qualsiasi nuovo prodotto, sono:

Se la risposta a tutte queste domande è “per niente”, possiamo assicurare l’insuccesso di questo prodotto.

Attenzione, però. Alcuni prodotti ai quali apparentemente è difficile attribuire proprietà, subiscono l’effetto di pulsioni non consce, che intervengono irrazionalmente ma efficacemente. Ad esempio:

Le considerazioni svolte consentono la formulazione del seguente principio:

La creazione del valore non si limita ai prodotti, ma si estende alle imprese come potenziali partner di relazioni. Ciò che sosteniamo qui, è che ogni impresa, nel rapportarsi ad altre, possiede le stesse proprietà basilari dei prodotti: risolvere, mantenere, prevenire.

Vediamo questa trascrizione:

La mia azienda deve iniziare ad esportare. Qui le cose si stanno facendo strette. Bisogna iniziare a guardare fuori dall’Italia. Penso che la prima cosa da fare sia trovare una nuova banca. Nella mia sembra che scendano dalle nuvole. Ho chiesto se hanno problemi ad accettare lettere di credito internazionali e hanno detto che non sanno e per queste cose bisogna rivolgersi alla sede. La mia banca, ora come ora, non è all’altezza di aiutarmi davvero nelle operazioni di export. Mi vedo già, con un ordine sul tavolo, senza sapere come incassare. Penso proprio che sarò costretto a rivolgermi ad una banca diversa.

Ciò che interessa il cliente, nella banca, è la sua capacità di prevenire un problema potenziale incombente: cioè il timore di trovarsi a fronteggiare un pagamento internazionale senza avere a fianco interlocutori bancari preparati.

Vediamo un altro esempio in un mercato diverso. Come evidenzia questa intervista personale, realizzata dall’autore al buyer di un importante rete di importatori francesi nel mercato degli utensili:

Vedi questi due attrezzi, uno è il nostro, l’altro è coreano. Il prodotto è praticamente identico. C’è solo una differenza. Che i coreani non hanno magazzini qui in Francia, e se si rompe il loro attrezzo stai fermo due settimane ad aspettare i ricambi, e il cliente se la prende con noi. Ormai per noi utensilieri non è più importante solo il prodotto, ma quello che riusciamo a fornire al nostro cliente finale come garanzie. La vera differenza tra le diverse marche produttrici, per noi, inizia quando il pezzo si rompe.

Questo, dal punto di vista dell’impresa, significa apprendere a divenire un fornitore che previene problemi.

In altre parole, per ogni azienda è necessario sviluppare una nuova leva di vendita, estranea al prodotto, ma centrale per l’acquirente (finale o intermediario): la vendita del senso di affidabilità globale dell’impresa. Il concetto di “lavorare con noi”, al di là del prodotto, deve divenire un elemento di valore aggiunto anticipatorio (di credibilità e affidabilità). Non solo prodotti e servizi, ma anche persone e aziende devono porsi il problema di quali leve esse siano in grado di attivare per generare valore agli occhi dei propri interlocutori.

Il vantaggio competitivo, in questo caso, si sposta dal prodotto (aspetto tecnico) alla capacità di sviluppare credibilità aziendale (aspetto manageriale e di comunicazione).

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Vantaggio competitivo

Credibilità aziendale

Affidabilità

Valore aggiunto

Leva di vendita

Prevenire il problema

Partner di relazioni

Analisi del valore

Movente inconscio

Movente subconscio

Movente conscio

Nuovo prodotto

Differenziazione

Innovazione

Qualità del prodotto

Branding

Efficienza operativa

Flessibilità

Reattività al mercato

Servizio clienti

Ricerca e sviluppo

Talento e competenze

Relazioni con i fornitori

Gestione del marchio

Gestione delle risorse umane

Accesso alle risorse

Marketing strategico

Esperienza del cliente

Posizionamento sul mercato